Quando nel 2012 Salvatore Iaconesi si è ammalato di cancro al cervello, ha deciso di avviare La Cura, una performance globale per riappropriarsi del proprio corpo e della propria identità creando una cura partecipativa open source per il cancro (la licenza Open Source favorisce la modifica, lo studio, l’utilizzo e la redistribuzione del codice sorgente di un software).
Milioni di persone da tutto il mondo hanno risposto.
Salvatore oggi è un designer, ingegnere robotico, artista e hacker. Nel 2004 ha fondato Art is Open Source, con cui si muove tra arte, scienze, tecnologia, comunicazione e design per realizzare opere e progetti sul mondo contemporaneo. I suoi lavori sono stati esposti a livello internazionale in festival e conferenze.
(immagine di copertina presa dal profilo LinkedIn)
Per ATC Toscana intervista Davide Borghetti.
Salvatore Iaconesi: ingegnere, artista, hacker, designer. I piedi a terra, la testa tra le nuvole: come riesci a muoverti e a far convivere tra loro – peraltro in modo naturale – discipline in apparenza così differenti e lontane tra loro?
Perché in realtà non sono così tanto diverse le une dalle altre.
La tecnica è profondamente fondata nella cultura, e viceversa.
Le tecnologie, prima che al dominio dell’usare, afferiscono al dominio del sentire. Perché non siamo solo noi ad inventare le tecnologie, ma sono anche le tecnologie che inventano noi, rendendoci quello che siamo e come sentiamo e comprendiamo il mondo. Il vincolo e la dipendenza sono quantomeno bidirezionali.
L’artista, in un certo senso, ha sempre fatto esattamente questo: esplorare i limiti dell’essere umano tramite la tecnica, ed esplorare i limiti della tecnica tramite l’essere umano.
Oggi, questo si unisce ai temi della complessità. Per avere a che fare col mondo globalizzato e iperconnesso che abitiamo, occorre avere una grande capacità nell’affrontare la complessità e, in ogni caso, non è assolutamente cosa che si possa fare da soli: servono competenze, tecnologie, infrastrutture, poter gestire aspetti amministrativi, legali, economici. Questo è il motivo per cui come strumento della nostra arte non usiamo cose come un pennello, o uno scalpello o uno o più altri strumenti tecnici simili. Il nostro strumento – di cui ci siamo dovuti dotare – è un centro di ricerca di nuova concezione, che si chiama HER: She Loves Data (https://www.he-r.it/ ).
Uno degli obiettivi della nostra Associazione è quello di riportare l’approccio medico-scientifico, per definizione distaccato e obiettivo, ad una dimensione più umana.
Il rapporto tra medico e Paziente, per vari motivi sempre più spesso ridotto ad una semplice erogazione di servizio, potrebbe invece trarre beneficio da un più intenso scambio sul piano umano ed emozionale. Ciascuno di noi, del resto, è il risultato di una lunga, complessa e irripetibile storia. Ti riconosci, in qualche modo, in questo approccio?
Nella mia esperienza questi sono tutti ruoli e rapporti da reinventare. Mi riconosco in questo approccio, e tento di andare anche più in là. Io e mia moglie Oriana abbiamo imparato a chiamarlo l’approccio della Cura.
Il mio rapporto col tema della cura nasce nel 2012, quando mi sono ammalato di cancro al cervello.
Entrato in contatto con i sistemi della salute pubblica e privata, ho sentito la necessità di una concezione più relazionale, sociale, e solidale di quello che si può intendere per “salute”.
Quindi, ispirato da Basaglia e conscio che una cura può effettivamente avvenire solo nel bel mezzo della società, ho trasformato la mia malattia in una grande performance artistica globale, a cui hanno partecipato più di un milione di persone da tante nazioni, proprio sui temi di cui stiamo parlando.
Non mi dilungo sulla storia, di cui c’è anche un libro rosso che si chiama proprio “La Cura”. (https://www.codiceedizioni.it/libri/la-cura/)
Ora sto bene però, come al solito, con la pandemia la salute delle persone ci rivela di nuovo la difficoltà in cui si trova il nostro mondo nell’affrontare i problemi della complessità: ora è la pandemia, ma sarà lo stesso per il cambiamento climatico, la povertà, l’istruzione e così via.
In tutti questi casi, la “terapia” è molto diversa dalla cura. Nella terapia, uno prescrive e somministra all’altro: prendi queste pastiglie; fai questi esercizi; o altro. Nella terapia non c’è neanche strettamente il bisogno di stabilire un rapporto: hai i dati e, in base a quelli, prescrivi e somministri. È un rapporto amministrativo, burocratico. Che può essere quello che serve in certi contesti, eh? Ma è bene ricordare a cosa si riferisce: è una cosa che afferisce al dominio dell’utilità in cui sulla base dei dati (ad esempio, clinici) si calcola che “medicine” somministrare. È un rapporto solo nel senso in cui dei numeri entrano in rapporto tra loro in una funzione: un rapporto “calcolante”.
La cura, invece, è tutta diversa. Perché innanzi tutto è fondata quasi esclusivamente sul rapporto. Io stabilisco un rapporto con te e, in base a quello, facciamo una serie di azioni. Incluse, per esempio, delle terapie. Ma non solo. Certo, “prendersi cura” può voler dire anche amministrare delle terapie. Ma non solo. C’è questo elemento del rapporto, della relazione che cambia tutto. Innanzitutto perché nella relazione si è almeno in due. E anche la cura è per tutti e due. Quando “mi prendo cura” di te, fa bene anche a me! Quando mi prendo cura di qualcuno o qualcosa, anche quel qualcuno o qualcosa si sta prendendo cura di me, in più di un senso: lo sanno con certezza tutti quelli che fanno volontariato, giardinaggio, restauro o che si prendono cura del parente anziano, o cose del genere. Quando si parla di malattia, questa cosa è ancora più scioccante, perché si può immaginare addirittura di stravolgere i ruoli. Il paziente che “cura” il medico: eresia! Ed è un peccato che lo sia, e che la maggior parte delle volte i medici si debbano ridurre ad amministratori di terapie. Perché, invece, nella cura, l’esistenza del rapporto rende tutto più umano, dignitoso e soddisfacente per tutti. La cosa ancor più interessante avviene, però, a livello epistemologico. Perché nella dimensione della cura ciò che viene trasformato è il modo stesso in cui si conosce. Perché la cura presuppone il riposizionamento sia del ricercatore che del ricercato. Il primo non è più chiuso nel suo laboratorio a estrarre dati e tessuti dall’ambiente per fare i suoi esperimenti e calcolarne – nella solitudine e nella separazione – i risultati e le conseguenze. Nella cura il ricercatore è in stretta relazione con la società. Le persone sono i suoi partner, i co-investigatori, persino i co-finanziatori: se pensiamo ai soldi pubblici che vanno alla ricerca, si iniziano a poter fare dei cortocircuiti interessantissimi che riguardano lo scegliere cosa ricercare, come, collaborando con quali parti della società, comunicando dove e come i risultati, e mettendoli a disposizione in quali modi.
Ecco: possiamo dire che tutte le nostre opere d’arte parlano praticamente solo di questo.
E in questo periodo sarebbe interessantissimo chiedersi come sarebbero andate le cose, nell’emergenza del Coronavirus, se ci si fosse concentrati più sulla cura che sulla terapia.
Perché è ovvio che tutti i modi in cui sono stati usati i dati, i divieti, le soluzioni tecniche e tecnologiche ricadono nella dimensione della terapia. E allora si apre una domanda ancora più grande: come sono fatte delle istituzioni che sono in grado di operare nella dimensione della cura?
Certamente non come le attuali!
Avere a che fare con la mente e con la dimensione interiore ci porta a diretto contatto con elementi non misurabili e, per questo, non scrutinabili mediante metodo scientifico. Prendiamo ad esempio la creatività, l’immaginazione o, per chi lo possiede, al lato spirituale: molti di questi elementi fanno parte di percorsi terapeutici che, per loro stessa natura, non saranno mai standardizzabili.
La stessa cosa avviene, ad esempio, con l’arte e la comunicazione: che ruolo hanno, per te (sia da un punto di vista personale che professionale), questi elementi non misurabili?
Mi trovo in un momento particolare nel rispondere a questa domanda. Perché le cose non sono semplici come ce le potremmo aspettare.
I dati (e quindi forse le entità più oggettive e misurabili a cui di solito si pensa) non sono più quelli di una volta.
I dati, una volta, quando era l’era dell’industria, erano utili perché si potevano contare. Erano una cosa lineare, come la linea di montaggio, come l’orologio che segna i turni in fabbrica, come il numero di lampadine, bulloni o pentole che escono sul un container.
Ma il mondo è cambiato, e i tempo e tutto il resto.
Ora è il tempo delle reti, e tutto tende a diventare un grafo di nodi e interconnessioni. I corpi, gli spazi e i tempi sono collegati da hyperlink, dispositivi, cloud, dati e computazione. Non c’è più nulla di lineare. Tanto è vero che tutte le scienze, in un modo o nell’altro, si stanno trasformando nella loro versione di rete: stanno diventando tutte network sciences, basate su dati e computazione.
E sono miriadi di dati e grandissime capacità di computazione.
Non essendo più lineari ed essendo così tanti, non ha quasi più senso contarli.
Ha molto senso, invece, cercarci dentro delle forme ricorrenti, e studiare come cambiano, e con che dinamiche e relazioni. Una ecologia di forme di dati.
E questo è quello che fanno le IA: trovano forme nei dati, come noi riconosceremmo un volto in una nuvola.
Questa è una condizione particolare.
Perché non c’è nessun volto nella nuvola. Però, quando te lo indico, lo vedi pure tu, proprio come quando il volto c’è effettivamente.
Si aprono, insomma, dei paradossi, delle questioni, delle metafore, delle estetiche nella tecnica che sono propri della filosofia, dell’arte, della poesia, della magia, della spiritualità.
E tutti questi domini vanno affrontati, perché hanno forti impatti sulla nostra psicologia, sul nostro modo di imparare, conoscere, comprendere, relazionarci.
Fra un po’, forse, arriveranno i computer quantistiche, e si porteranno appresso una ulteriore trasformazione: quello che era lineare e poi è diventato rete, allora diventerà probabilistico, fuzzy, indeterministico.
E così via.
Come ci possiamo (e potremo) avere a che fare?
L’Arte ha un ruolo enorme in questo.
Purtroppo all’Arte, troppo spesso, è riservato un ruolo di decorazione, e estetizzazione e spettacolarizzazione delle scienze e delle tecnologie. Nessuno è ancora stato così intelligente da mollare l’osso e di includere l’Arte nella concezione delle strategie. Neanche un curatore, o un critico, o un manager dell’arte: proprio un artista.
Quelli che stiamo vivendo sono problemi di senso, esistenziali: ha poco senso che li affronti un manager di qualche industria, serve un poeta, una persona del teatro, e così via.
Quando ci siamo sentiti la prima volta, mi hai detto: “Le persone fanno un sacco di cose…e non perché siano utili, ma perchè ne hanno bisogno”. La trovo una frase bellissima e che riassume, in poche parole, anche lo spirito della nostra associazione. Di cosa sente il bisogno Salvatore?
Ora come mai, ed esattamente come tutte le persone nel mondo in questi momenti complessi, ho bisogno di silenzio, di raccoglimento, di senso, di pochi amici e parenti con cui stabilire una fiducia reciproca, e dei rappresentanti politici che non siano dei populisti, che abbiano una visione costruttiva e positiva, che non si riducano ad usare come strumento paure e istinti bassi. Mi rendo conto: nella situazione attuale, è molto difficile. Ma potremmo contribuire tutti.
L’isolamento determinato dalla pandemia ha sollevato la necessità di (ri)valutare la telemedicina, potenziando le infrastrutture informatiche (non soltanto da un punto di vista dell’hardware) allo scopo di facilitare la comunicazione tra operatori e Pazienti e gestire al meglio il flusso di dati. Da questo punto di vista, invece, siamo ancora relativamente indietro: ad oggi non esiste, ad esempio, uno standard definito per i dati sanitari – cosa che rende difficoltoso l’interscambio e la loro aggregazione. In qualità di ingegnere (e di hacker!) che consiglio vorresti dare?
Il “solito” già sarebbe un miracolo: usare soltanto software e hardware open source, formati aperti, algoritmi ispezionabili, protocolli standard e interoperabili, e infrastrutture sostenibili.
Se si riuscisse ad ottenere già questo urlerei di gioia.
Inoltre consiglierei di non delegare la tecnica e la tecnologia solo ai tecnici, ma di assicurarsi sempre una molteplicità di punti di vista, anche psicologici, delle scienze della vita, estetici, poetici.
L’uscita della app Immuni ha nuovamente posto l’accento sulla necessità di tutelare, e ad ogni costo, la privacy (cosa che peraltro l’app garantisce!). Se da un lato è vero che questa tutela deve essere garantita a ciascun individuo, dall’altro credo si possa raggiungere un adeguato compromesso al fine di tutelare un bene superiore (la salute di miliardi di persone). Ho l’impressione, a volte, che l’uomo abbia tra le mani degli strumenti estremamente potenti, ma che non è ancora in grado di gestire e sfruttare al meglio. Che ne pensi?
Questo è un tema molto complesso, e ne ho scritto estensivamente. Qui cercherò di essere sintetico.
Il problema non è assolutamente la privacy. La App è fatta molto bene sotto questo punto di vista.
Di nuovo, siamo di fronte a un problema di senso, di capacità di avere a che fare con la complessità, e di gestione globale del potere.
Dai primi due punti di vista: il problema è che l’uso dell’app non corrisponde una effettiva cura dei cittadini, che vengono sballottati, messi in fila, abbandonati, posti davanti a procedure burocratiche incomprensibili e al limite della tortura, ivi compreso il senso di indeterminazione e di non riconoscimento di diritti e libertà.
Dal punto di vista della gestione del potere: stiamo mettendo poteri enormi nelle mani di società private orientate al profitto che non sono né predisposte, né capaci, né desiderose di tutelare i diritti e le libertà individuali e sociali dei cittadini.
Le alternative ci sono.
Alcune più immediatamente accessibili, che afferiscono al dominio denominato delle sovranità digitali: hanno ancora il profondo difetto di trattare il problema esclusivamente come un problema tecnico, ma esistono già soluzioni usabilli.
Altre più complete, che mirano a cambiare i modelli di gestione del potere, tendendo a quelle che noi chiamiamo istituzioni ecosistemiche.
A nostro avviso, oltre a lavorare sull’educazione, sul pensiero critico e sulla corretta informazione, bisognerebbe intervenire maggiormente anche sul benessere sociale e psicologico, così da arginare le fragilità individuali e favorire, nel contempo, la ricerca di una stabilità interiore in elementi più solidi e costruttivi. L’arte e l’estetica, in questo, potrebbero giocare un ruolo importante. Purtroppo ho l’impressione, invece, che tutti questi aspetti vengano costantemente trascurati o sottovalutati – già a partire dalle scuole. Che ne pensi?
Come ho detto prima: l’importante e che le arti entrino a dar forma alle strategie, non solo a decorarle e spettacolarizzarle.
Nel logo dell’associazione ho inserito una chiave di violino – la musica, l’arte – distorta in modo da rappresentare un abbraccio materno, ovvero la prima vera forma di “cura” messa in atto da un essere umano nei confronti di un altro. Anche se solo metaforicamente, non dovremmo forse tornare un po’ a questo?
Io tendo a non avere un approccio paterno o materno. Al massimo fraterno.
Di sicuro i concetti dell’amicizia, dell’amore, più ampiamente, della relazione mi interessano molto.
L’amicizia, per quelle affinità, generosità, affidabilità, solidarietà disinteressate che la caratterizzano: una gioia tranquilla, in cui poggiarsi e su cui far poggiare i propri affini scelti.
L’amore (e la passione) per quella dose di incontrollabilità ingestibile, e per quella assenza di noia e abitudine.
Più specificamente, mi interessa la relazione e, quindi, l’ecologia, che è la scienza delle relazioni, non l’ambientalismo. Io e mia moglie Oriana siamo molto affezionati a una citazione di Gregory Bateson: “It takes two to know one”. Ne servono due per conoscere uno. Senza un altro non puoi nemmeno essere certo che esisti.
Un grazie di cuore a Salvatore Iaconesi da tutta ATC Toscana.