Intervista ad Arianna Baldini, operatrice teatrale

A cura di Saverio Ottino, socio fondatore ATC Toscana. Si ringrazia Arianna Baldini per la disponibilità e la preziosa testimonianza.

Arianna Baldini è un’operatrice teatrale di 31 anni, attiva nel campo del teatro-educazione e del teatro sociale. Arianna lavora sul territorio della provincia di Ancona come operatrice teatrale e referente per reparto formazione dell’Associazione Teatro Giovani Teatro Pirata (ATGTP).
Il confine tra teatro-educazione e teatro sociale è labile, poiché si fondano sulla medesima visione: utilizzare il linguaggio del teatro per facilitare le dinamiche socio-relazionali, mettendo il linguaggio teatrale a servizio di didattica, integrazione, incontro interculturale.

Cosa si intende per teatro sociale?
Il teatro sociale, con le proprie competenze e peculiarità, indica al destinatario modelli artistici da assimilare prendendosi cura del singolo nella relazione con se stesso e con gli altri. Si inserisce solitamente in contesti di fragilità o di esigenze educative o rieducative, penso ad anziani, migranti, persone con diverse abilità o sottoposte a detenzione carceraria ecc.

E per teatro-educazione?
Il teatro educazione fa parte del teatro sociale, come afferma Alessandro Pontremoli, docente e direttore dell’istituto teatro Sociale all’Università di Torino. Il neologismo nasce dall’incontro tra il teatro e l’educazione ovvero quando l’arte sposa la pedagogia e viceversa: è un insieme di metodologie artistiche ed educative che hanno come destinatario la comunità nella sua accezione più ampia anche se il fenomeno si realizza prevalentemente nel mondo della scuola.

Come sei arrivata a questo lavoro?
Studiando teatro e scoprendo su di me la capacità che il teatro ha di connetterti con le tue fragilità e quanto possa sostenerti nell’affrontarle.
Da lì ho capito che il mio rapporto con il teatro non si poteva limitare alla recitazione o alla regia, ma doveva evolvere nella ricerca di una utilità sociale, che mi desse modo di aiutare anche altri ad attivare quella potenzialità di benessere ed evoluzione provata su me stessa.
Ho incontrato così l’associazione per la quale attualmente lavoro, che da quasi 40 anni conduce un lavoro di ricerca e formazione nell’ambito del teatro educazione, dove ho potuto ritrovare e rispecchiare la mia ricerca personale, confrontarla e soprattutto arricchirla con percorsi e attività formative di respiro nazionale.

Il teatro in qualche modo è terapeutico?
Lo è in senso lato, perché l’operatore teatrale vede le persone che ha di fronte e interagisce con loro in profondità ma limitatamente al linguaggio dell’arte e del teatro, mai sostituendosi a figure specialistiche in ambito psicologico e sanitario. Il teatro è una forma d’arte che, tramite il suo peculiare linguaggio, è in grado di mettersi a servizio di situazioni di particolare fragilità.

A chi fa particolarmente bene questo percorso?
A chi è in grado di mettersi in ascolto.
Relativamente al mio osservatorio personale, a fare la differenza è la predisposizione della singola persona a mettersi in gioco e ad ascoltare, ad aprirsi a un percorso inesplorato. Se si parte da questo presupposto, accade qualcosa di davvero significativo: un’apertura verso il proprio emisfero emotivo, una ricerca profonda su come relazionarsi con esso e metterlo in comunicazione con gli altri. Risulta particolarmente evidente una crescita della relazione con l’altro fondata sulla collaborazione e non sulla competitività, un indebolimento delle sovrastrutture, dei ruoli e delle maschere sociali.

Puoi farci degli esempi di particolare interesse?
Mi viene in mente una classe di prima superiore, con metà di allievi ripetenti. Era considerata la “classe difficile” dell’istituto. Completamente disabituati alla coralità e, nelle dinamiche di gruppo, si presentavano situazioni estreme come litigi e minacce fisiche. Con loro siamo arrivati a fare uno spettacolo insieme. Persone con vissuti difficili e svariate problematiche comportamentali, si sono trovate a compiere una lettura corale di un testo teatrale. Anche chi non se l’è sentita di salire sul palco ha comunque partecipato, da dietro le quinte, attivando in sé nuove dinamiche relazionali significative: l’altro era per la prima volta un alleato e non un nemico.

Cosa cambia rispetto a un classico laboratorio di teatro?
È un laboratorio teatrale, pertanto si parte dal lavoro sul corpo, movimento, vocalità, relazione con l’altro, improvvisazione, ciò che cambia è l’obiettivo: la conduzione non punta ad uno standard da raggiungere, ma alla stimolazione di un percorso individuale da sviluppare. La grandissima attenzione dedicata a tutelare il contatto dei partecipanti con le proprie e le altrui emozioni, attraverso il gioco serio del teatro, porta non solo alla costruzione di bellissime scene, ma anche a grandi momenti di verità. Penso, ad esempio, a un ragazzo poco più che adolescente con attitudini violente, con cui ho lavorato insieme a un’educatrice. Con lui abbiamo vissuto teatralmente l’esperienza di una scena amorosa, garantendogli un “luogo sicuro” nel quale vivere emozioni di tenerezza e di accudimento che non era abituato a provare.

Quindi i percorsi si concludono con uno spettacolo?
Non la chiamiamo “spettacolo”, ma “restituzione” o “dono teatrale”, per enfatizzare l’importanza del lavoro e del percorso effettuato più che la prestazione finale.
È anche un confine di consapevolezza importante: è fondamentale arrivare alla restituzione, alla conclusione del percorso, modellando il risultato finale sulle attitudini, potenzialità e limiti delle singole persone e del gruppo, ma sempre rispettando rigorosamente il codice del teatro.

E a te come operatrice cosa restituisce questo modo di vivere il teatro?
Un ampliamento dei miei orizzonti umani e l’attitudine a cercare la chiave giusta per consentire alle persone di aprirsi, un nutrimento creativo e inventivo stimolato dalla continua ricerca della giusta forma teatrale del lavoro che facciamo insieme, ogni volta è unico. Non c’è mai stato un laboratorio uguale a un altro.

Spesso il teatro viene visto come un ambiente chiuso, riservato a esperti e addetti ai lavori, ma in realtà è un linguaggio che abbatte muri, costruisce ponti e aumenta la coesione sociale.
Nasce il termine “teatro di comunità” proprio per sottolineare il potenziale di abbattimento delle disuguaglianze, dei muri e delle differenze, e per la capacità di far lavorare insieme persone molto differenti tra loro, coinvolgendo le comunità di riferimento, grazie anche alla partecipazione delle amministrazioni locali.

Come incidono queste esperienze su chi partecipa?
Nei laboratori ho visto chiaramente un progressivo abbattimento delle barriere personali, un aumento della fiducia nell’altro, e un disciogliersi delle differenze, anche grazie all’ironia e all’auto-ironia, crolla quell’aura di riverenza che spesso si crea attorno a chi è più fragile, e che, se ci pensiamo bene, è una forma involontaria di discriminazione.

Come è cambiato il lavoro in questo anno di Covid?
Durante la pandemia il lavoro si è fermato per circa un mese. Dopo questo shock iniziale sono ripartite principalmente le situazioni che necessitavano un compimento del percorso da un punto di vista sociale e di crescita, come nel caso degli allievi degli ultimi anni dei cicli di studio o percorsi riguardanti persone con diverse abilità. Un caso che, nonostante le difficoltà di questo anno è proseguito con risultati importanti, è quello di un gruppo di teatro di comunità che conduco dal 2018, con cui siamo arrivati a completare tre lavori, pronti ad andare in scena appena si potrà ripartire.